Adriano Silingardi. Genova in movimento
Immagini di un fotografo militante.
26 settembre – 10 ottobre 2014
Cortile Maggiore
A cura di Associazione per un Archivio dei Movimenti
Ingresso libero
Il catalogo della mostra è edito a cura dell’Associazione per un Archivio dei Movimenti
Un intervento di Luca Borzani
Le fotografie di Adriano Silingardi rimandano a una stagione politica e culturale, “gli anni Settanta”, di cui si è largamente deformata la memoria e con cui molti degli stessi protagonisti hanno a lungo evitato di fare i conti. Il racconto pubblico è oscillato tra autocelebrazione e rimozione, ridimensionato di fatto in stereotipi che risultano contradditori e poveri. Le ragioni di questa perdita di senso storico sono ovviamente molteplici, ma una appare di fondo: la difficoltà a misurarsi con la sconfitta. Perché di sconfitta insieme politica e generazionale si è trattato. La stessa definizione di “anni di piombo” assunta come sintesi dell’intero decennio e non del suo tragico epilogo è forse l’aspetto più emblematico dello svuotamento di una vicenda collettiva che ha avuto ben altri tratti e ambizioni. Non a caso la percezione della chiusura irreversibile di una fase, dell’improvvisa perdita di significato di linguaggi, comportamenti, autorappresentazioni appartiene, come forse ultima estrema condivisione, a tutti coloro che vissero “in movimento” quegli anni. Più che una ritirata fu una rotta, che rese nel tempo difficile distinguere la partecipazione diffusa, studentesca ma anche operaia, dall’azione terrorista e il conflitto sociale dalla violenza armata. Eppure gli anni settanta furono altra cosa. E’ bene dirlo. E furono sostanzialmente una generalizzata istanza di ribellione verso un paese ancora apertamente classista nelle sue strutture fondamentali, dalla scuola agli ospedali, dalla magistratura all’università, segnato da una classe di governo priva di alternanza, identificabile con la pura gestione del potere e non estranea a tentazioni autoritarie. Né la sinistra storica, ampiamente egemone a livello sindacale e di fabbrica, era in grado di riassorbire, per l’ossificazione ideologica e la sostanziale visione conservatrice della vita sociale che la caratterizzava, le spinte alla modernizzazione e democratizzazione dello stato, le differenze di genere, i nuovi diritti delle persone. Non che la nuova sinistra, più o meno extraparlamentare, non si muovesse su rigidi codici ideologici, su mutuazioni, talvolta patetiche altre volte paranoidi, del mitico partito delle avanguardie, su luoghi comuni rivoluzionari e innamoramenti acritici di regimi totalitari e ferocemente repressivi. Ma dentro quello scenario si affermava, appunto, il protagonismo di una generazione, la prima in Italia a non essere segnata dalla fame e dalla guerra, che rifiutava la pura logica dei consumi, che praticava esperienze di democrazia diretta, che rivendicava una reale eguaglianza sociale, la libertà sessuale, i diritti della donna. Vale poi la pena di ricordare che gli “anni settanta” cominciano con le bombe di piazza Fontana, con il clima cupo della strategia della tensione e il profondo rimescolamento del quadro geopolitico bipolare. Dalla primavera di Praga al Vietnam, a Cuba, all’Angola il quadro internazionale uscito dal dopoguerra sembrava progressivamente frantumarsi, con l’affermarsi dei popoli poveri in una lotta anticoloniale che era anche ricerca dell’emancipazione dall’imperialismo americano come dalla burocrazia sovietica. E in quelle lotte e vittorie si delineava un internazionalismo nuovo, non solo di maniera, che collegava le periferie delle città, le fabbriche con le paludi del Mekong o le cime andine. In un mondo non ancora globalizzato il mondo entrava nella vita quotidiana di migliaia di giovani italiani. Così come fermezza nella denuncia delle collusioni e con la controinformazione si contribuì a svelare le trame e gli inquinamenti della democrazia. Insomma uno sguardo nuovo sulle cose, la vita, i rapporti di classe che contribuì a smuovere, a formare coscienze, pensiero collettivo, legislazione più avanzata. E ancora la non neutralità del sapere e della scienza, le prime timide istanze ecologiche. Perché si perse? In realtà persero sia la sinistra storica che la nuova sinistra. L’incapacità di un programma di riforme radicali, la grigia strategia del compromesso storico, la ristrutturazione produttiva che avvia la deindustrializzazione del paese, l’inadeguatezza delle formazioni di origine extraparlamentare più attente alla costruzione dell’autoreferenzialità organizzativa che a processi unitari e poi l’esplosione del 1977 con una radicalità antagonista che si configura davvero come punto di svolta, insieme irruzione rivoluzionaria e impotenza. Ma è già un’altra composizione sociale, proletariato giovanile urbano, precari, operai “flessibili”, e altri modelli organizzativi. La nuova sinistra anticipò la fine dei partiti. E’ l’alba del “no future”. Lì finisce una storia e ne inizia un’altra. Questa si destinata a intrecciarsi con le formazioni armate. Anche in questo caso sarebbe però scorretto operare generalizzazioni e non vedere la convivenza di anime politiche profondamente diverse. Ma da lì in poi lo slogan del “privato come pubblico” si rovescia nel “pubblico come privato” in molteplici declinazioni: da quella del reduce a quella dei neoentusiasti promotori della modernizzazione craxiana. La deformazione della memoria si allargherà a comprendere, e non a caso, la sinistra tradizionale travolta, alla fine del decennio successivo, dalla caduta del muro di Berlino senza riuscire a produrre una riflessione critica sulla propria storia e definire strumenti per affrontare il mondo globalizzato e della finanziarizzazione dell’economia. Tanti nodi dell’oggi hanno le loro radici ancora lì negli anni Settanta. Ma ripercorrerli significa aprire più ferite che consolazioni nostalgiche. E con la consapevolezza di aver vissuto nell’ultimo ventennio veri “anni di ferro”. Le fotografie di Adriano Silingardi ripropongono frammenti genovesi di quell’età. E credo sia stata un’operazione utile riproporli in un volume corredato da una cronologia da lui stesso curata. Valgono credo alcune avvertenze di lettura. La fotografia e ancor più la cinepresa o la telecamera televisiva non erano strumenti di autorappresentazione politica. Anzi nei loro confronti vigeva una sorta di sospetto, di possibile uso poliziesco. Siamo lontani dai giorni dell’amplificazione mediatica come surrogato dell’identità. Non a caso la memoria visiva di quegli anni è sostanzialmente concentrata nelle immagini di due soli grandi fotografi affini culturalmente ai movimenti: Uliano Lucas e Tano D’Amico. La seconda: a Genova la nuova sinistra rappresentò sempre una componente politica ampiamente minoritaria, sostanzialmente studentesca, con bassa soglia di erosione della sinistra storica e poca influenza sia in fabbrica sia nei quartieri cittadini con esclusione del centro storico. Il centro storico di allora, caratterizzato da progressivo degrado e da una comunità umana socialmente variegata e tendenzialmente marginale ma capace di profonde solidarietà interne. La rappresentazione costruita da Adriano Silingardi rimanda non a caso soprattutto ai cortei e alle manifestazioni, spazio di visibilità per eccellenza dei movimenti e luogo simbolico e di centralità politica nella vita delle organizzazioni. Rimane anche attraverso queste immagini una dimensione forte di protagonismo collettivo e di straordinaria generosità sociale. A distanza di quasi quaranta anni difficile non leggere le occasioni mancate.
Luca Borzani
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