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1600 – 1700: vita nelle carceri

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Salvo la gabbia superiore tutto l’edificio era occupato dalle carceri. Nei grandi cameroni a volta i detenuti stavano in comune, spesso incatenati. Lungo i ripiani della ripida scala c’erano anche alcune segrete per condannati speciali.
Le carceri della Torre, almeno fino ai primi decenni dell’Ottocento, erano destinate ad ospitare detenuti politici o persone colpevoli di crimini particolarmente efferati, nonché, nelle più comode parti superiori, esponenti della nobiltà in attesa di riscatto.
I detenuti comuni venivano per lo più rinchiusi nelle carceri dell’adiacente Palazzetto Criminale (ora sede ell’Archivio di Stato) che era collegato a Palazzo Ducale da un passaggio aereo.
Da un romanzesco processo contro il custode delle carceri Giovanni Battista Noceto, reo di favoritismi illegali nei confronti di alcuni detenuti, veniamo a conoscere i curiosi nomi che venivano dati alle singole celle: Paradiso, Superbia, Examinatorio, Canto, Stanza della Cappella, Reginetta, Armi, Donne, Pregionetta, Pistolle, Diana, Colombara, Luna, Granda, Palma, Gentilomo, Gabbia, Ferrate, Sicurezza, Dianetta, Gallina, Strega, Volpe, Capitania, Ospedale, Pozzetto.
Secondo alcuni esisteva anche una cella chiamata Grimaldina che avrebbe dato poi il nome corrente alla Torre.
Questa supposizione sembra avvalorata da un ben preciso episodio storico che evidenzierebbe la destinazione a carcere della torre e dei vani attigui molto prima del Cinquecento.
Dopo la celebratissima battaglia navale di Ponza del 4 agosto 1435 fra la flotta siculo-aragonese e quella genovese, i prigionieri furono sistemati a Genova in varie prigioni.
È proprio l’elenco dei prigionieri a darci precise indicazioni. A fianco di ogni nome fu indicata una lettera per specificare la destinazione:
“M” = Carcere della Malapaga
“C” = il Castelletto
“G” = Grimaldina
“L” stato di libera circolazione, pur sotto controllo.

Il carcere detto la Grimaldina era riservato solitamente ai detenuti politici e si trovava ubicato nella parte dell’antico Palazzo del Comune, a ponente della Torre, prospettante sull’attuale via Tomaso Reggio.
È facile immaginare quale fosse la vita lassù: il poco vitto e i disagi delle intemperie minavano in poco tempo la salute dei detenuti.
Per molto tempo il mantenimento dei carcerati fu affidato alla carità pubblica.
I carcerati riposavano su fetidi pagliericci, avvolgendosi in coperte sporche e spesso nell’inverno, quando la tramontana e il nevischio imperversavano attraverso le inferriate, adoperavano pagliericci e coperte per ripararsi alla meglio ammucchiandoli lungo i finestroni.
In due piani della torre erano riservate due sale speciali: gli examinatorii. Là sorgeva il tribunale con strumenti di tortura come l’eculeo o cavalletto e la corda a cui gli inquisiti venivano appesi per le braccia legate dietro la schiena a volte con l’aggravante di pesi attaccati ai piedi.
Un altro sistema, usato come complemento del primo, era la sveglia e consisteva nella posizione della corda, mitigata da un appoggio sotto i piedi, una semplice tavola attraverso due cavalletti.
Se alla corda non si doveva durare legalmente oltre una mezz’ora, alla sveglia in compenso si potevano trascorrere molte ore. Quando il giudice o il cancelliere comandavano di alzare l’inquisito “ponevano”, come dicono i verbali, “in corso l’orologio”.
Solamente usavano l’astuzia di coprire coi libri e colle carte l’ampollina, perchè il tormentato non avesse coscienza dello scorrere del tempo e quindi fosse più sensibile alla tortura e meno caparbio nel silenzio.

Ogni tanto il medico (il barbero o il fisico, secondo l’importanza del caso) visitava il paziente per constatare se qualche difetto organico non gli vietasse di sopportare il tormento.
E poi si somministravano i sorsi di vino regolamentari a quelli che lo chiedevano e si concedeva anche qualche intervallo per le necessit&ggrave; corporali.
Quando vi era una di queste interruzioni, a domanda dell’inquisito, i giudici fermavano l’orologio (l’ampolletta).
Nelle prigioni c’era anche una minuscola cappelletta arredata con le tristemente famose tavolette destinate a confortare i detenuti con violente figurazioni di martirio.
Il corredo personale del Maestro di giustizia era composto da una variegata collezione di mannaie, lacci, tenaglie, tornetti e coltelli.
Non tutte le esecuzioni a Genova avevano luogo alla Malpaga, al Castellaccio o alla Lanterna. Le condanne a morte per reati politici erano quasi sempre eseguite segretamente a Palazzo.
In una camera accanto a quella delle torture il carnefice strozzava il condannato alla spagnola con un laccio e un bastone, oppure lo decapitava con la corta mannaia posata sul collo e battuta con una pesante mazza.
Il tronco veniva poi composto, vestito talvolta da terziario francescano con la testa deposta fra i piedi. A questa esposizione, inscenata nel cortile di Palazzo, si affollava il popolino.

 






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